Questo post, lo anticipo, farà parte di quel lungo lavoro che ho imbastito da tempo. Quale forma prenderà ancora non lo so, ma sarà una grande storia, che ne cucirà insieme molte altre. Parlerà di persone prima di tutto, dei loro sacrifici e delle loro scelte. Parlerà di giovani italiani, quelli che quotidianamente vengono pubblicati in prima pagina, gli stessi che, a mo' di réclame, passano in tv dietro la bandiera che più comoda.
Tra i precari che mi affiancheranno ci sarà lui, almeno spero, Alessandro Pagano Dritto, autore de Il Referendum, blogger per Frontiere News nonché mio carissimo compagno d'avventure universitarie.
Alessandro mi ha stupito per l'enorme passione che dedica al lavoro; un lavoro che va considerato come tale anche se non è retribuito, non ha ferie pagate e non ha garantiti giorni di malattia e di infortunio.
Alessandro da tre anni ci racconta la Libia. Lo fa dalla sua città, Schio, riportando le informazioni che reperisce quotidianamente dalle sue fonti dirette conosciute tramite i social network, dal Libia Herald, come anche dalle agenzie internazionali Reuters, Associated Press e Anadolu, per citarne alcune.
In questa intervista, con la stessa dedizione che dedica alla sua Libia, Alessandro ha raccontato una parte di sé, importantissima, quella che ogni giorno, sempre più imponente, lo accompagna al successo, al traguardo, forse alla rivincita; Alessandro ha parlato della sua sensibilità, lo strumento che più di tutti lo aiuta a distinguersi, ponendosi sempre come narratore e mai avvocato.


Alessandro allora, veniamo alla domanda principe di questa chiacchierata, perché la Libia?
Eh, la risposta è...non lo so! Me lo hanno chiesto in molti e ancora non so cosa rispondere. Non è stata una cosa razionale scegliere di attaccarmi, giornalisticamente parlando, a questo territorio. Quando mi si chiede perché la Libia parto sempre raccontando di quel giorno al mare, mentre al sole caldo della Sicilia mi persi a leggere gli avvenimenti del tempo. Avevo l'impressione di trovarmi di fonte a un'insurrezione popolare; provavo l'emozione di assistere a una richiesta di libertà. Molti, ancora oggi, hanno criticato questa visione. Secondo me nella rivoluzione libica molti ci hanno creduto e me ne accorgo anche ora parlando su internet con alcuni follower. Benché la loro situazione attuale non sia splendente, non ho visto molti pentimenti.
Tornando all'origine del mio sogno libico, quando alcuni dissero "questi ribelli sono qaedisti" o " sono solo terroristi" sin da subito alzai un sopracciglio. Non avevo ancora le informazioni che ho oggi, però l'idea che d'un tratto una popolazione si svegliasse armata per instaurare il regno di Al-quaeda, mi pareva improbabile o almeno discutibile e ci ho voluto indagare in profondità.
Il giorno della cattura di Mu'ammar Gheddafi seguii la vicenda dal sito di Al Jazeera; capivo l'inglese meno bene di oggi, inoltre il collegamento era pessimo, il video si interrompeva di continuo e riuscivo a intendere dieci parole ogni mezzo minuto. Ciò nonostante percepivo l'importanza di quel momento, sapevo di trovarmi davanti a un evento storico e sapevo che di lì a breve pochi ne avrebbero parlato, lasciando la questione in sospeso, dibattuta sporadicamente a livello internazionale. E ho avuto ragione.

Ho iniziato così a seguire la Libia, scrivendo diversi articoli tra il 2012 e il 2013. Quando a maggio è scoppiata quella che alcuni chiamano la "seconda guerra civile libica", ad oggi ancora in corso, ho iniziato a seguirne gli sviluppi, giorno dopo giorno, e ad agosto ho dato inizio al blog Cronache libiche su Frontiere News. La cattura di Gheddafi mi ha colpito, direi anzi che mi ha colto in una disposizione d'animo e d'intelletto che mi ha accompagnato da quel giorno ad oggi, prima spronandomi a capire, poi a seguirne gli sviluppi, infine facendomi letteralmente attaccare alla Libia.
Oggi ho dato vita a un nuovo blog, Destinazione Libia, che è già attivo ma ancora agli inizi. L'ho aperto perché mi attirava l'idea di un blog più personale e svincolato da qualsiasi linea editoriale o contenitore da me non diretto. In questo nuovo involucro ho presentato anche la mia storia, anzi, una breve spiegazione di come sono arrivato al giornalismo. La letteratura in questo mi ha guidato.
Ho sempre frequentato il mondo dei libri e credo di essermi avvicinato al giornalismo con l'idea di fare letteratura; questa, come tutta l'arte in generale, la considero un modo per capire l'uomo. Un obiettivo del giornalismo credo sia proprio questo, capire gli eventi, capire le persone, dando una narrazione del contesto. Raccontare l'Uomo vuol dire raccontarne le sfumature e per coglierle occorre tanto e continuo esercizio di pensiero, di lettura, di letteratura, di studio e di scrittura, in una parola di sensibilità.
A me piace poco il giornalismo fatto a sprazzi, fatto di notizie che coinvolgono più o meno emotivamente lo spettatore, lasciandolo poi a se stesso. Secondo me il giornalismo dovrebbe rifarsi al romanzo, seguire il protagonista dall'inizio alla fine, in tutte le sue evoluzioni. Credo che il blog come mezzo gestito in autonomia assoluta possa aiutare in questo senso, permettendo al giornalista di focalizzarsi, dando quindi al lettore un'idea lineare dei fatti. Questo è quello che mi ha colpito dei blog e che mi ha spinto a diventare blogger.

Ricordo un post che hai pubblicato qualche giorno fa sul tuo profilo facebook, in cui parlavi della televisione e delle sue caratteristiche intrinseche in quanto limiti a un corretto utilizzo giornalistico capace di offrire una ricostruzione continuativa dei fatti. É possibile che la TV dimostri questa pecca anche, se non soprattutto, perché fatta per intrattenere, fare show, sempre e comunque, su tutto e per tutto? 
Beh l'intrinsecità del canale è certo un limite. Pensa al telegiornale: in mezz'ora vengono condensate le notizie più rilevanti del giorno (secondo logiche e criteri di notiziabilità precisi e prescelti) passando, per fare un esempio, dal terrore per l'ISIS alle risate per le gaff di chicchesia. A me questa narrazione a singhiozzi piace poco.
Per quanto riguarda il fare show, direi che c'è dell'altro. Mi vengono in mente i casi giudiziari. Mi spiego tornando sempre al mio paragone preferito, quello con la narrativa. I gialli ne sono alla base; c'è un delitto, c'è un'indagine, poi un processo e un verdetto. Ecco il motivo per cui tirano, raccontano una storia ricostruendola. In tv, come sul giornale cartaceo o online, un caso di cronaca giudiziaria dovrebbe poter essere trattato, nel senso migliore del termine, proprio in questo modo, come un giallo. Il giornalismo giudiziario, indipendentemente dal mezzo, dovrebbe ricostruire i fatti attraverso la presentazione delle narrazioni dell'accusa e della difesa. É vero sì, c'è anche la dimensione dello show, ma quello che più mi dispiace è la ricerca più emotiva che razionale. Molto spesso, invece di raccontare allo spettatore/lettore tutti i meccanismi del processo giudiziario, ignoti a molti, si punta a provocare delle risposte emotive, cosa che a un vero giornalista non dovrebbe interessare.

La TV in questo è maestra: attraverso immagini e musiche provoca ed esaspera una reazione emotiva. Aspetta ma, stiamo già parlando di TV generalista?
Al di là del mezzo, ripeto, penso sia il caso di parlare di giornalismo generalista. Oggi i diversi contenitori di informazione parlano un po' di tutto, finiscono col parlare di niente e capita poi che quello che dicano, lo dicono male. Secondo me, riprendendo il discorso su Destinazione Libia, con il blog ci si può concentrare su un tema, parlandone con continuità temporale, esplorando derivazioni e sviluppi, per offrire un quadro informativo completo. Così facendo penso di potermi inserire nelle crepe del giornalismo generalista attuale e di evitare di saltare da un capitolo all'altro della stessa storia. Con un blog tutto cambia; cambiano i limiti, le scadenze, c'è tutta un'altra dimensione che si basa soprattutto sul lettore anzi sul pubblico fidelizzato nel tempo.

Come vivi la distanza tra te e la realtà di cui parli, le vicende libiche di cui scrivi?
Da un lato, non lo nego, nonostante sia cosciente della difficoltà che presenta ad oggi la situazione di certe aree del paese, un po' mi spiace non essere lì. Sul territorio si ha un'altra impressione, più diretta. Tuttavia, il rimanere all'esterno, lontano, escluso da quei confini, mi permette forse di vedere le cose con maggiore obiettività. Grazie ai social, sono capace di vivere le situazioni dai racconti che mi arrivano in tempo reale e questo mi permette di ridurre un po' la distanza fisica ed emotiva con il territorio di cui parlo.

Parlando di social, come ti "proteggi" dalle false notizie o false fonti che possono rimbalzare da un follower/amico all'altro? In questo caso è essenziale avere coscienza della situazione di cui si parla. E torno ancora una volta alla continuità narrativa di cui dicevamo prima. Io oggi ho idea di quello che succede nelle principali città della Libia. So che a Bengasi ci sono carri armati per le strade e c'è chi tiene un'arma in casa. Questo mi aiuta a evitare o a prendere in considerazione un tweet. Chiaro che le fonti ufficiali, se e quando possibile, è bene averle tenendole in giusta considerazione rispetto a fonti meno professionali, soprattutto da quelle che fanno informazione da bastian contrario.

É forse un rapporto conflittuale quello tra le fonti nei social?
Ma in realtà non è proprio così. Le fonti ufficiali come tali vanno prese, quelle invece non ufficiali devono essere costruite nel tempo, si deve creare un certo rapporto di fiducia. Le fonti si conoscono, si costruiscono anzi "stando sul pezzo" e non piombandoci d'un tratto. Nel mio caso, come giornalista esterno, che constata e racconta solo per quanto appreso da altri, arrivato a un certo punto posso solo prendere atto di ciò che dicono le varie fonti. Credo si possa chiamare onestà intellettuale, che vale anche in caso di rettifica da parte di una o più fonti. Questa è informazione responsabile. Il giornalista, certo, per professione è legato a una deadline e deve in questo caso constatare la presenza di voci dissenzienti, considerandone le dimensioni per non rischiare di attribuire a un popolo la contestazione di pochi. Anche se però nell'immediato è difficile avere e dare le giuste proporzioni. I social network in questo senso aiutano ad avere un quadro abbastanza ampio della situazione, permettono di confrontare diverse voci, ufficiali e ufficiose, però in definitiva non sono paragonabili al nostro essere fisicamente in un posto. Tengo a precisare inoltre che, in qualsiasi contesto, ogni fonte non è mai imparziale - ove imparzialità e obiettività non sono la stessa cosa - e sarebbe impensabile pretenderlo da fonti dirette, quelle immerse nel contesto da cui non è possibile chiedere di estraniarsi.  In questi casi sta a chi è fuori capire, proporzionare e valutare. Per quanto mi riguarda, seguendo da anni la Libia, sapendo la situazione in corso e conoscendo persone che abitualmente twittano a riguardo, credo di avere qualche possibilità in più rispetto ad altri per smarcarmi dal possibile sgambetto o dagli errori in cui è facile incappare se le voci, tante sui social, sono contrastanti.

Seguendo dei fatti in rapida evoluzione spesso risulta difficile "stare sul pezzo" come dicevi, e a volte è comprensibile sentirsi costretti al compromesso tra tempismo e qualità dell'informazione. Il bravo giornalista, se messo alle strette da notizie contrastanti, deve poter fare la scelta migliore, che non prescinda né dalla tempestività né dalla verifica delle fonti. Pensando al panorama attuale, con notizie di ogni tipo che arrivano da chiunque e da ovunque, quanto è necessario secondo te puntare sulla qualità? Quanti sono in effetti gli utenti, i cittadini, gli abitanti della rete, che vogliono nutrirsi di informazione pura, di fatti, non opinioni? 
Il punto è proprio questo ed è una cosa di cui ho scritto con ricorrenza nei miei post: molto spesso capita che alcuni dicano di essere informati o di volersi informare; in realtà si accontentano della notizia estemporanea, data in velocità o pubblicata senza contesto. Forse una parte del pubblico è realmente interessata alla disamina dei fatti, un'altra invece, preferisce farsi colpire dalle notizie che tendono a cavalcare l'onda emotiva. Penso ai fatti di questi giorni: molti di quelli che dicono di temere di vedere i miliziani dell'ISIS sotto casa, probabilmente non hanno mai letto un  rapporto sull'ISIS, - e ormai in rete di rapporti scritti da studiosi autorevoli se ne trovano moltissimi su qualsiasi argomento, anche comodamente scaricabili in pdf e gratuiti - che ne esamini obiettivi, strategie e organigramma ; non hanno cioè mai tentato di razionalizzare le proprie paure, di vedere quanto fossero motivate o no alla luce di una riflessione non emotiva e basata su conoscenze complesse. Nessuno chiaramente è obbligato a documentarsi sull'ISIS o su qualsiasi altra cosa, ma penso che in generale ciò che fa paura o genera diffidenza debba essere affrontato razionalmente; altrimenti è forse il caso di ammettere che a questo qualcosa stiamo dando meno importanza di quanto si voglia far credere. A ognuno la sua libera scelta, anche quella di mostrarsi terrorizzati di cose alle quali però all'atto pratico non si dà alcun rilievo: solo, mi sembra un po' un controsenso, un comportamento persino banale.

Hai sollevato una questione interessante. Forse la scarsa qualità di un certo giornalismo è dovuta alla scarsa attenzione del lettore e del telespettatore. Si potrebbe parlare di una superficialità diffusa nella società contemporanea?
Io non credo assolutamente che i giornalisti siano il tumore di questo mondo, come non lo sono i politici. Ma è tutto collegato. Un lettore abituato e affezionato a un'informazione emotiva spingerà il giornale a dare un'informazione emotiva. I dati sono importanti, è importante citarli come è importante citare anche le dovute fonti e definizioni, in caso contrario si parla di disinformazione. É anche vero che oggi, davanti alla disinformazione, il singolo ha modo di tutelarsi, perché fortunatamente tutto o quasi è rintracciabile e recuperabile.
Ma allora torniamo alla domanda precedente: quante sono le persone che hanno interesse a prendere un'ora del proprio tempo per verificare quanto letto, scritto o detto? E' verosimile pensare che non siano molte.

Cosa pensi di avere di diverso da un giornalista professionista e dal lettore medio? Probabilmente il fatto che non sia un giornalista di redazione mi dà più libertà, anche se devo dire che non ho mai avuto pressioni dalle redazioni "virtuali" dei giornali per cui collaboro. La libertà mi permette di approfondire quello che mi piace e penso sia una cosa del tutto positiva. Mi dispiacerebbe trovarmi in una redazione ed essere costretto a fare degli articoli di cronaca, ma non perché sia meno interessante, bensì non vedo l'utilità di fare qualcosa che magari ad altri verrebbe meglio perché personalmente più interessati.
Quanto al lettore è possibile che io sia riuscito ad acquisire una maggiore consapevolezza o sensibilità nel distinguere razionalità e irrazionalità. Mi spiego: di solito cerco sempre di costruirmi un filone narrativo per cogliere l'essenza dei fatti, anzi degli avvenimenti. Quando non riesco a crearlo, considerando i limiti umani che anche io ho nel seguire le varie notizie, so di dovermi limitare alle informazioni così come "vendute" ma senza illudermi del loro valore. Spesso il lettore medio tende a farsi un giudizio da quel poco che ha appreso, solitamente parziale e privo di una qualsiasi sostanza che possa divenire oggetto di discussione.

C'è qualche delusione che leghi al giornalismo?
A parte non essere ancora corrispondente dalla Libia? Scherzi a parte, posso dire con franchezza che mi delude il giornalismo che non tenta nemmeno di dare una narrazione continua dei fatti, il giornalismo che non vuole fare narrazione in senso stretto. Il giornalista certo non ha i mezzi dello storico però per quanto possibile, con le tempistiche del caso, dovrebbe proporsi come lo storico di oggi. A me piacciono molto i libri storici, soprattutto quelli di storia locale, dove non si parla solo di -ismi e di tutte le etichette derivate, ma dove si raccontano persone realmente vissute che hanno agito in un contesto e che hanno fatto la storia. Il giornalista secondo me deve dare questa dimensione alle notizie, parlare di persone e fatti concreti, lasciando poi al lettore la libertà di costruirsi una propria opinione. Nel momento in cui il lettore viene privato di questa dimensione concreta e pragmatica, il giornalista non fa del tutto il suo lavoro, fa giornalismo per etichette, per annunci, rimanendo superficiale. Chiedo al giornalista di garantire al lettore la massima obiettività nel descrivere i fatti non per come sono, ma per come gli appaiono o gli sembrano apparire; gli chiedo di raccogliere i punti di vista contrastanti; non voglio sia né difensore né accusatore, per quanto possibile vorrei si facesse portavoce di tutte e di ogni parte.