25 febbraio 2015

Una stroncante febbre a più di 38 mi ha impedito di seguire lucidamente la notte degli Oscar per la quale da settimane avevo prenotato il divano, con posto riservato fronte schermo, poggia braccio a sinistra per blocco appunti e penna, alternando a disposizione smartphone e/o pc con cui twittare, facebookare e postare on my blog.
Tutto saltato, ma grazie a YouTube sono riuscita a recuperare lo spettacolo intero, pur concedendomi qualche intermezzo ronfante come effetto della dose da 1500 mg di tachi al giorno.  Puff.

Bene, direi spettacolo d'apertura carino e simpatico sebbene in stile musical, genere che non apprezzo affatto. Bravò a Neil Patrick Harris, Anna Kendrick (vi ricordate Jessica, l'amica rompi di Bella Swan in Twilight?) e a Jack Black, lui è impossibile dimenticarlo!
Bellissima durante la prova di canto la proiezione a fondo palco degli attori candidati, un bel tributo anche per coloro rimasti a bocca asciutta.
Andiamo al palcoscenico, allestimento dai colori caldi, tra l'oro della statuetta a il rosso del carpet, molto natalizio.
Si entra subito nel vivo con l'assegnazione del premio al miglior attore non protagonista. Lupita Nyong'o, insignita dello stesso premio per 12 anni schiavo, miglior film 2014, fa una piccola gaffe: vuole consegnare "l'attore" anzichè l'oscar. Che carina! Supera subito l'imbarazzo, giusto in tempo per lasciare il microfono ai ringraziamenti di J.K. Simmons, il severissimo professore di Whiplash.

Dopo la performance di Adam Levine, frontman dei Maroon 5, con Lost stars, candidata come miglior canzone per Beginnig Again di John Carney, arriva il secondo premio, italianissimo! Tocca a Milena Canonero la statuetta per i migliori costumi in Gran Budapest Hotel. Elegante, sobria, umile come sempre, un simil trench nero oltre il ginocchio, pantaloni neri ma brillanti, una camicia bianca appena visibile e un unico tocco di colore rosso sulle scarpe. Poche parole pronunciate a mezza voce, tutte di ringraziamento per il regista Wes Anderson, occhi lucidi e tanta emozione, mista quasi a paura per quel microfono a cui non è abituata.

Il sipario non cala e sul palcoscenico appare una candida Reese Witherspoon pronta a consegnare la seconda statuetta allo staff di Grand Budabest Hotel, questa volta come miglior trucco a Frances Hannon e Mark Coulier.

E' la volta di Nicole Kidmann e Chiwetel Ejiofor (protagonista di 12 anni schiavo) per la consegna dell'Oscar che l'anno scorso, tra molte critiche, toccò a La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Un anno dopo lo vince Ida diretto dal polacco, loquace ed emozionatissimo Pawel Pawlikowski che a stento lascia il palco colto da una improvvisa frenesia da ringraziamento.

Arriva poi il secondo stacchetto musicale con Everything is awesome, canzone del The Lego movie cantata da Tegan and Sara feat. The Lonely Island - personalmente non capisco come possa aver guadagnato una nomination, fattostà...

Rimaniamo sui film stranieri, questa volta i cortometraggi. La statuina d'orata tocca a The phone call di Mat Kirkby, corto inglese del 2013 realizzato in low/no budget cui segue a ruota il corto documentario Crisis Hotline: Veterans Press 1 dietto da Ellen Goosenberg Kent.

Gwyneth Paltrow presenta la terza delle cinque candidate alla miglior canzone, I'm not gonna miss you di Glen Campbell in I'll be me.
Da questo momento in poi l'atmosfera si fa decisamente più calda e si sentono avvicinarsi i premi più prestigiosi. Lo si capisce dalla grandissima messa in scena di Neil Patrick Harris che si lancia in una apprezzabilissima parodia di Birdman che prende in prestito il giovane batterista di Whiplash. Ed è proprio al film di Damien Chazelle che va l'Oscar per il miglior sonoro ad opera di Craig Mann, Ben Wilkins e Thomas Curley, mentre il premio "cugino" il miglior montaggio sonoro va a Alan Robert Murray e Bub Asman per American Sniper.

Jared Leto calca il palcoscenico con il suo ormai consueto look da Jesus Christ superstar -dove la parte da superstar la fa tutta il completo griffatissimo che indossa per l'occasione. L'ex miglior attore non protagonista sta volta consegna la stessa "statuetta al femminile" a una ciecata Patricia Arquette per il suo ruolo in Boyhood. Inforca subito gli occhiali da presbite per riuscire a leggere tutti i ringraziamenti custoditi nella pochette da gala. E con gran sorpresa riserva la chiusura a tutte le donne d'america, invitandole a combattere per farsi valere e per vedere riconosciuto ogni pari ed egual diritto.

Mentre Robert Duval si chiede perché Neil Patrick Harris abbia chiesto di svegliarlo ogni 5 minuti, Diane Warren canta Grateful di Beyond the Lights, altra candidata miglior canzone.
Ma eccoci pronti al successivo Oscar per gli effetti speciali, meritata statuetta a Paul Franklin, Andrew Lockley, Ian Hunter e Scott Fisher per Interstellar.

E' il momento del miglior corto d'animazione, primo Oscar a Patrick Osborne per Feast, seguito dal fratello maggiore Oscar per il miglior film di animazione a Big Hero 6, diretto da Don Hall e Chris Williams.

Arriva poi la terza statuina per Grand Budapest Hotel come miglior scenografia ad opera di Adam Stockhausen, e subito arriva anche la prima delle 9 statuette di Birdman. Per la seconda volta consecutiva Emmanuel Lubezki vince il premio per la miglior fotografia. Nulla di ridire sul serio, anche se un pò tifafo per Unbroken.

A Meryl Streep l'onore di introdurre il consono "in memoriam" omaggio a tutti gli attori, autori, sceneggiatori e professionisti dell'industria cinematografica persi durante l'ultimo anno. Dopo questo momento toccante Naomi Watts e Benedict Cumberbatch riportato in auge gli animi e consegnano l'Oscar al miglior montaggio a Tom Cross per Whiplash.

Con lo stesso passo spedito Jennifer Aniston e David Oyelowo presentano i candidati al miglior film documentario, premio vinto da Citizenfour sotto la regia di Laura Poitras e dopo un breve break pubblicitario ecco l'ultima delle candidate a miglior canzone: il palco del Dolby Theatre riapre con John Stephens e Lonnie Lynn che intonano Glory di Selma - La strada per la libertà. Una performance intensa, profonda e commovente che ha fatto alzare in piedi l'intera sala, platea e gallerie comprese. Dopo neanche un paio di minuti ecco i due musicisti tornare sul palco a ritirare la stra stra stra meritata statuetta d'oro!

Un'insospettabile Lady Gaga, pulita, elegante, sobria e professionale, letteralmente irriconoscibile in un abito da Cinderella, ha riportato in piedi l'auditorium con un personalissimo tributo a Julie Andrews, che molti ancora ricordano nei panni di Mary Poppins o della tata di Tutti insieme appassionatamente. L'attrice britannica, con oltre 60 anni di carriera in attivo è poi salita sul palco visibilmente commossa, pronta ad assegnare l'Oscar per la miglior colonna sonora. Ed ecco arrivare la quarta statuina per Gran Budapest Hotel, premio ritirato dal compositore francese Alexandre Desplat, candidato per lo stesso riconoscimento anche con The Imitation Game.

A un serissimo e rigido Eddie Murphy tocca la consegna dell'Oscar come miglior sceneggiatura originale. Anche qui a contendersi sono dei big, ma la meglio ce l'ha il favoritissmo Birdman, che conta già due statuine al seguito. Il fratellastro del premio, l'Oscar per il miglior sceneggiatura non originale, passa dalle mani di Oprah Winfrey a quelle di Graham Moore per l'adattamento di The Imitation Game. Un discorso raffazzonato il suo, sincopato, privo di ossigeno, a cui certo non serviva inserire il triste riferimento a un passato tentativo di suicidio in età adolescenziale.

Ci siamo quasi, gli ultimi quattro riconoscimenti stanno per essere assegnati e l'amosfera è carica. Ben Affleck, più cupo e meno barbuto del solito sputa quasi subito il verdetto e Alejandro González Iñárritu deve tornare di gran carriera sul palco. Ecco anche la terza statuetta per Birdman, miglior regia.

Cate Blanchette impeccabile come sempre, in un lungo abito nero padroneggia il palcoscenico con il suo sguardo magnetico. Eccola mentre urla di getto quel nome. Eddie Redmayne vince l'Oscar come miglior attore protagonista per La teoria del tutto.
Il testimone passa a un super sexy Matthew McConaughey che assegna a Julianne Moore l'Oscar come miglior attrice protagonista in Still Alice.
La serata volge al termine e Neil Patrick Harris torna al suo posto per aprire la busta con i suoi pronostici. Ruba la scena solo per una manciata di minuti, prima di lasciare il palco a un mostro del cinema hollywoodiano, Sean Penn. E' lui che richiama Iñárritu, la produzione e il cast sul palco. Birdman si aggiudica anche la quarta statuetta rimasta. Birdman è il miglior film dell'anno.




Posted on mercoledì, febbraio 25, 2015 by Unknown

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24 febbraio 2015

Riggan Thompson, il noto e stra passato interprete del supereroe Birdman cerca di togliersi maschera e piume del vecchio personaggio attraverso una prova più ardua, che decide di compiere sul temuto e ambito palco di Brodway. Dal racconto di Raymond Carver "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore" che Riggan riadatta, dirige e interpreta, non può che derivare il futuro della sua carriera: potrà essere un pesante capitombolo oppure una stupenda rinascita, la conferma di un talento mai riconosciuto in quanto tale.


Devo ammettere che prima di vedere Birdman ho voluto aspettare la cerimonia degli Oscar. non capivo cosa potesse avere di così speciale un film come questo rispetto a quello che personalmente reputo un magistrale esempio cinematografico e a cui ho personalmente conferito il mio personalissimo Oscar come miglior film; sto parlando di Selma
Eppure, dopo la visione di Birdman ho dovuto ricredermi. Il mio Oscar da lì non si muove, sia chiaro, però devo dire che Iñárritu e il suo cast imperiale -come lo ha definito Mereghetti alla prima del Festival di Venezia- non hanno rubato un premio immeritato. Michael Keaton (Riggan Thompson), Edward Norton, Emma Stone, Zach Galifianakis, Andrea Riseborough, Amy Ryan e Naomi Watts hanno contribuito alla riuscita di questa pellicola, prestandosi a una prova ambigua, a tratti comica, poi drammatica. Ciò che colpisce in primis è la costruzione del film. Lo avete notato? Tutto appare come se lo vedessimo con i nostri stessi occhi, interrotti dal solo battito ciliare. Eppure non si tratta di un solo piano sequenza. Ce ne sono diversi, uniti poi con dei trucchi post produttivi che a una prima visione sfuggono. Ci sono lunghe e ferme inqudrature sui corridoi dei camerini, rapide soggettive, spostamente di macchina - che panoramiche non sono - musica prima extradiegetica, poi diegetica poi ancora fuori campo e di nuovo in. La fotografia è impeccabile, ad opera dell'ingordo Emmanuel Lubezki che lo scorso anno vinse l'Oscar per la miglior fotografia con Gravity di Alfonso Cuarón, premiato come miglior regista.
Al di là della tecnica di realizzazione è la trama che non quadra. C'è questo supereroe che cerca una qualche forma di riscatto, più come attore che come uomo/padre/marito; teme il giudizio severo, anzi distruttivo, di una critica fatta per etichette, superficiale e a cui non importa conoscere i retroscena, le storie personali, la fatica e l'impegno di quegli interpreti che con una recensione sul New York Times potrebbero finire sul baratro o vedere l'apice delle proprie carriere.
In mezzo al dibattito tra industria hollywoodiana e impegno autoriale trovano spazio i drammi di persone qalunque: il desiderio irraggiunto di diventare mamma, l'impotenza, la tossicodipendenza, le cause legali, i costi di un'opera teatrale, un matrimonio fallito, una figlia perduta, il successo e il potere conteso e conferito prima dalla critica degli élite e poi dai social del popolo.
A fare da filo conduttore ci sono le nevrosi di Riggan che vagamente ricordano quelle di Nina de "Il cigno nero": sente la presenza ingombrante, incessante di quell'uccello che ha segnato la sua carriera, come una voce costante nella sua testa che, assieme alla pressione e alle aspettive per lo spettacolo, non fa altro che destabilizzare l'equilibrio precario del protagonista. E' così comprensibile, o quasi, il gesto inconsulto cui ripiega Riggan durante la prima teatrale, ma di certo non si spiega la comparsa di poteri paranormali che, anzi, toglie quel tratto di umanità e autenticità al film.

Posted on martedì, febbraio 24, 2015 by Unknown

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22 febbraio 2015

L'umanità sta per scomparire. La terra è in balia di una piaga che colpisce le più comuni colture, la popolazione soffre la fame e a stento sopporta l'aria satura di polveri e sabbie.
Di questo quadro tragico fa parte una società terrorizzata che rinnega le missioni Apollo etichettandole come strategica propaganda per distruggere il nemico (i russi) e che ripiega ogni elemento sull'agricoltura, andando così a scapito di ogni possibile avanzamento nel campo della ricerca fisica, spaziale o ingegneristica.
La soluzione esiste ma rimane una teoria nelle menti di brillanti scienziati della NASA che in incognito, in questi anni di negazionismo, hanno continuato a lavorare in laboratori sotterranei nascosti a pochi km di distanza dalla casa dell'ex pilota Cooper. Saranno lui e, inaspettatamente, sua figlia a salvare l'umanità da una fine certa.


Non è un film di fantascienza qualunque questo dei fratelli Nolan. Sì perché oltre alla relatvità del tempo, alle realtà pentadimensionali e alle equazioni di meccanica quantistica viene introdotta un'interessante variabile dal possibile valore scientificamente quantificabile: l'amore.
Il tutto è costruito in maniera abbastanza classica per il genere di film:

  • c'è un problema che vede la Terra e i suoi abitanti in pericolo - check!
  • un manipolo di scienziati è disposto a partire per il bene comune - check!
  • la missione comprende una serie di esplorazioni di ricognizione e altre in avanscoperta - check!
  • si palesano dei problemi prontamente risolti e alla fine l'eroe torna a casa - double check!
  • L'amore è forse il più grande colpo di scena del film che in effetti alla fine risulta un pò ridondante, ma non deludente; infatti per tutti i 163 minuti di proiezione viene contrapposto il bene della specie umana a quello del singolo, parallelamente l'amore per la propria razza versus l'amore filiale. Matthew McConaughey nel ruolo del protagonista ed eroe non convince particolarmente, almeno non tanto quanto la superba Jessica Chastain nei panni della figlia ribelle cresciuta percorrendo le orme del padre, o la collega Anne Hathaway nel ruolo di Amelia, la fredda dottoressa, figlia dell'ideatore della spedizione, tanto legata ai principi scientifici quanto schiava di quell'idea dell'amore che da quache parte e per qualche motivo deve poter essere denaturato della sua dimensione e definizione prettamente emotiva, per essere elevato a uno status più nobile e strumentale, appunto scientifico.
    Una congettura originale, come originali sono alcune visioni spaziali, o anche la ricostruzione della stanza della piccola Murph in un unica dimensione in cui convergono varie porte temporali, che lo stesso Cooper utilizzerà come ponte di comunicazione.
    La musica è ricca di pathos e i continui flash di luce e buio, che fanno solo intravedere Cooper mentre attraversa la galassia in cerca di un segno di quanto capiterà, danno un senso di suspance che purtroppo nel resto della visione manca.




    Posted on domenica, febbraio 22, 2015 by Unknown

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    20 febbraio 2015

    Questa recensione la scrivo con le lacrime ancora umide sulle guance. Selma - la strada per la libertà è il mio vincitore indiscusso degli Oscar 2015.
    Il film narra i fatti del '65, quando Martin Luther King Jr usava le marce come potere di negoziazione. Il tiro alla fune tra l'attivista e il politico, l'allora presidente Lindon Johnson, spesso si riassumeva con una protesta pacifica bloccata con violenza, spesso vedeva vittime innocenti, e sempre smascherava la folle xenofobia razzista di una società malata, storicamente lontana dalla nostra eppure così simile. Ben poco è cambiato. Ben poco abbiamo imparato.


    Selma è un capolavoro di storia contemporanea- genere che in questa edizione è stato molto apprezzato -arricchito da immagini di repertorio che avvalorano il potere documentaristico e azzarderei didattico del film.
    Sotto la direzione di Ava DuVernay, incomprensibilmente assente tra i registi candidati agli Oscar, la pellicola ricostruisce l'integrità morale di King, pastore protestante, marito, padre di famiglia, leader convinto alla guida di un popolo ingiustamente sottomesso e destinato a continui soprusi.
    Non aspettatevi di vedere una biografia tra tante, ricca di retorica condita da luoghi comuni. Piangerete nel vedere gratuite violenze, non capirete l'origine di tanta cattiveria, vi arrabbierete per le ingiustizie subite con dignità e vi vergognerete di essere bianchi come le mani del lurido assassino di Jimmie Lee Jackson e dei picchiatori di quel 7 marzo 1965, la domenica di sangue.
    Nei 120 minuti di Selma vedrete condensate le trattative e le strategie maturate in lunghissimi mesi, unite alle personali inquietudini dei personaggi che vi presero parte, i dubbi sul senso e sugli scopi delle loro azioni, prima tra tutte la marcia lungo Edmund Pettus Bridge per poi proseguire quegli 80 km che separavano Selma da Montgomery, 80 km da percorrere per la libertà.
    La bellezza del film non prescinde dalla regia né dalla sceneggiatura esemplare ad opera di Paul Webb (lo stesso di Lincoln) o dalla performance di David Oyelowo nei panni di King, eppure
    nessuno di loro è tra i potenziali vincitori delle rispettive categorie in gara per l'87esima edizione degli Oscar. Un vero peccato.

    Posted on venerdì, febbraio 20, 2015 by Unknown

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    19 febbraio 2015

    Alice Howland è una rinomata docente della Columbia University di New York. Intraprendente donna dalla carriera affermata, bella e decisa, emana sicurezza e successo a ogni parola che dice, a ogni passo che fa. Un marito fedele, una bella casa, una primogenita laureata in legge, il mezzano in medicina e la terza, la più testarda e ribelle, ancora intenta a rincorrere la celebrità del palcoscenico, nonostante il disappunto dichiarato della madre.
    Il quadro familiare, banale se vogliamo, appare comunque precario. Alice non è in sé; spesso dimentica le parole nel mezzo del discorso, all'improvviso perde l'orientamento, fatica a ricordare nomi di persone appena conosciute, orari e appuntamenti. Alzheimer precoce, questa è la diagnosi, l'inizio di un doppio calvario, l'inizio della fine di Alice.



    La trasposizione cinematografica dell'omonimo romanzo di Lisa Genova ha registrato una sola nomination agli Oscar edizione 2015, quella come miglior attrice protagonista. L'opera diretta dalla coppia Wash Westmoreland e Richard Glatzer mostra una Julianne Moore semplicemente perfetta.
    Sì d'accordo, la storia di una donna colpita da una malattia incurabile fa sempre il suo effetto. Ma in questo film c'è tanto altro. Il conivolgimento emotivo è naturale, eppure al di là della tristezza e della pena, il film smuove una serie di stati d'animo molto più profondi. E' davvero difficile non immedesimarsi nel dolore di Alice. Il suo è vero e proprio terrore: dal presentimento covato nel silenzio alla vergogna esplicita confessata al marito e ai figli. Still Alice è un film drammatico assolutamente ben costruito, infatti mi sorprende non sia stato candidato anche per il miglior montaggio. L'angoscia durante la visione, pregna di rassegnazione anziché suspance, è esaltata dalle varie inquadrature sfocate, dai lunghi silenzi, dalle regolari sequenze in soggettiva che vedono Alice monitorare l'avanzamento della sua malattia. I campi-controcampi mancanti sono stati acutamente scelti, come anche la fotografia che segue l'evoluzione della vicenda.
    L'interpretazione della Moore è sublime, non c'è che dire. Tenerissima nella Alice ormai persa, incapace di ricordare le istruzioni per il suicidio premeditato quando era ancora se stessa. Non mi ha convinto Alec Baldwin nel ruolo del marito devoto a metà, incapace di amare incondizionatamente, troppo egoista per affiancare la moglie nel suo percorso. Brava invece Kristen Stewart, diversa, profonda e coinvolgente.
    Personalmente credo non ci siano dubbi nell'assegnare alla Moore il premio, ma gli Oscar riservano sempre delle sorprese...

    Posted on giovedì, febbraio 19, 2015 by Unknown

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    18 febbraio 2015

    Chris Kyle è un ragazzo del Texas, primo genito di una famiglia di quattro persone. E' stato cresciuto a sani principi: rispetto delle istituzioni, dalla chiesa alla famiglia, amore per la patria e senso del dovere.
    Il Chris bambino sembra molto maturo e responsabile per la sua età, caratteristica che scema negli anni per lasciare spazio a quell'imprudenza bramosa d'adrenalina che lo accompagna durante la breve carriera da cowboy.
    La visione in TV di una serie di attentati fa risorgere quell'istinto da "cane da pastore", come lo chiamava suo padre. Decide così di arruolarsi, di mettersi a servizio dei più deboli, degli indifesi e del suo paese.


    Per buona metà del film tutto sembra essere abbastanza piatto, già visto: il giovane Chris fa carriera, diventa presto una leggenda per la sua straordianaria mira e abilità col fucile, salva molti suoi compagni uccidendo bambini e donne ribelli in Iraq. Parallelamente alla storia del militare si sviluppa quella personale che vede un Chris diverso, un padre e marito assente, troppo dedito al bene comune per concentrarsi su una famiglia che in fin dei conti può aspettare.
    A tre quarti del film ancora non è chiaro dove Eastwood voglia andare a parare e non è del tutto un male. Si intravede una sorpresa dietro l'angolo, si capisce che tra poco arriverà un colpo di scena, eppure rimane solo un'intuizione data dallo sguardo che il Chris di Bradley Cooper assume. Cambia in modo tanto graduale quanto profondo. Quest'attesa non fa calare l'attenzione, gli occhi rimangono incollati allo schermo, alla ricerca di un indizio che ci faccia dire "ok, non è solo il solito film sulla guerra e sugli effetti post traumatici da stress".
    Ma non è neanche solo un film di propaganda militare che voglia reclutare nuovi soldati. E' vero, c'è tanta retorica patriottica americana; sì, Clint Eastwood è un repubblicano dichiarato e lo si vede; ed ancora sì, la sindrome dell'eroe nonché difensore d'America, il paese più bello e più buono del mondo è costante e onnipresente. Ma c'è tanto altro ancora, e lo si capisce esclusivamente alla fine, quando il Chris militare in azione passa in secondo piano.
    Mi è piaciuta molto la definizione che ho letto sul the guardian, questo è un film western vecchio stile, inserito in un contesto bellico contemporaneo e tratto dall'autobiografia di un soldato americano. Attenzione, non un eroe militare americano, ma un uomo convinto di servire e difendere i più deboli.



    Posted on mercoledì, febbraio 18, 2015 by Unknown

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    4 febbraio 2015

    Questo post, lo anticipo, farà parte di quel lungo lavoro che ho imbastito da tempo. Quale forma prenderà ancora non lo so, ma sarà una grande storia, che ne cucirà insieme molte altre. Parlerà di persone prima di tutto, dei loro sacrifici e delle loro scelte. Parlerà di giovani italiani, quelli che quotidianamente vengono pubblicati in prima pagina, gli stessi che, a mo' di réclame, passano in tv dietro la bandiera che più comoda.
    Tra i precari che mi affiancheranno ci sarà lui, almeno spero, Alessandro Pagano Dritto, autore de Il Referendum, blogger per Frontiere News nonché mio carissimo compagno d'avventure universitarie.
    Alessandro mi ha stupito per l'enorme passione che dedica al lavoro; un lavoro che va considerato come tale anche se non è retribuito, non ha ferie pagate e non ha garantiti giorni di malattia e di infortunio.
    Alessandro da tre anni ci racconta la Libia. Lo fa dalla sua città, Schio, riportando le informazioni che reperisce quotidianamente dalle sue fonti dirette conosciute tramite i social network, dal Libia Herald, come anche dalle agenzie internazionali Reuters, Associated Press e Anadolu, per citarne alcune.
    In questa intervista, con la stessa dedizione che dedica alla sua Libia, Alessandro ha raccontato una parte di sé, importantissima, quella che ogni giorno, sempre più imponente, lo accompagna al successo, al traguardo, forse alla rivincita; Alessandro ha parlato della sua sensibilità, lo strumento che più di tutti lo aiuta a distinguersi, ponendosi sempre come narratore e mai avvocato.


    Alessandro allora, veniamo alla domanda principe di questa chiacchierata, perché la Libia?
    Eh, la risposta è...non lo so! Me lo hanno chiesto in molti e ancora non so cosa rispondere. Non è stata una cosa razionale scegliere di attaccarmi, giornalisticamente parlando, a questo territorio. Quando mi si chiede perché la Libia parto sempre raccontando di quel giorno al mare, mentre al sole caldo della Sicilia mi persi a leggere gli avvenimenti del tempo. Avevo l'impressione di trovarmi di fonte a un'insurrezione popolare; provavo l'emozione di assistere a una richiesta di libertà. Molti, ancora oggi, hanno criticato questa visione. Secondo me nella rivoluzione libica molti ci hanno creduto e me ne accorgo anche ora parlando su internet con alcuni follower. Benché la loro situazione attuale non sia splendente, non ho visto molti pentimenti.
    Tornando all'origine del mio sogno libico, quando alcuni dissero "questi ribelli sono qaedisti" o " sono solo terroristi" sin da subito alzai un sopracciglio. Non avevo ancora le informazioni che ho oggi, però l'idea che d'un tratto una popolazione si svegliasse armata per instaurare il regno di Al-quaeda, mi pareva improbabile o almeno discutibile e ci ho voluto indagare in profondità.
    Il giorno della cattura di Mu'ammar Gheddafi seguii la vicenda dal sito di Al Jazeera; capivo l'inglese meno bene di oggi, inoltre il collegamento era pessimo, il video si interrompeva di continuo e riuscivo a intendere dieci parole ogni mezzo minuto. Ciò nonostante percepivo l'importanza di quel momento, sapevo di trovarmi davanti a un evento storico e sapevo che di lì a breve pochi ne avrebbero parlato, lasciando la questione in sospeso, dibattuta sporadicamente a livello internazionale. E ho avuto ragione.

    Ho iniziato così a seguire la Libia, scrivendo diversi articoli tra il 2012 e il 2013. Quando a maggio è scoppiata quella che alcuni chiamano la "seconda guerra civile libica", ad oggi ancora in corso, ho iniziato a seguirne gli sviluppi, giorno dopo giorno, e ad agosto ho dato inizio al blog Cronache libiche su Frontiere News. La cattura di Gheddafi mi ha colpito, direi anzi che mi ha colto in una disposizione d'animo e d'intelletto che mi ha accompagnato da quel giorno ad oggi, prima spronandomi a capire, poi a seguirne gli sviluppi, infine facendomi letteralmente attaccare alla Libia.
    Oggi ho dato vita a un nuovo blog, Destinazione Libia, che è già attivo ma ancora agli inizi. L'ho aperto perché mi attirava l'idea di un blog più personale e svincolato da qualsiasi linea editoriale o contenitore da me non diretto. In questo nuovo involucro ho presentato anche la mia storia, anzi, una breve spiegazione di come sono arrivato al giornalismo. La letteratura in questo mi ha guidato.
    Ho sempre frequentato il mondo dei libri e credo di essermi avvicinato al giornalismo con l'idea di fare letteratura; questa, come tutta l'arte in generale, la considero un modo per capire l'uomo. Un obiettivo del giornalismo credo sia proprio questo, capire gli eventi, capire le persone, dando una narrazione del contesto. Raccontare l'Uomo vuol dire raccontarne le sfumature e per coglierle occorre tanto e continuo esercizio di pensiero, di lettura, di letteratura, di studio e di scrittura, in una parola di sensibilità.
    A me piace poco il giornalismo fatto a sprazzi, fatto di notizie che coinvolgono più o meno emotivamente lo spettatore, lasciandolo poi a se stesso. Secondo me il giornalismo dovrebbe rifarsi al romanzo, seguire il protagonista dall'inizio alla fine, in tutte le sue evoluzioni. Credo che il blog come mezzo gestito in autonomia assoluta possa aiutare in questo senso, permettendo al giornalista di focalizzarsi, dando quindi al lettore un'idea lineare dei fatti. Questo è quello che mi ha colpito dei blog e che mi ha spinto a diventare blogger.

    Ricordo un post che hai pubblicato qualche giorno fa sul tuo profilo facebook, in cui parlavi della televisione e delle sue caratteristiche intrinseche in quanto limiti a un corretto utilizzo giornalistico capace di offrire una ricostruzione continuativa dei fatti. É possibile che la TV dimostri questa pecca anche, se non soprattutto, perché fatta per intrattenere, fare show, sempre e comunque, su tutto e per tutto? 
    Beh l'intrinsecità del canale è certo un limite. Pensa al telegiornale: in mezz'ora vengono condensate le notizie più rilevanti del giorno (secondo logiche e criteri di notiziabilità precisi e prescelti) passando, per fare un esempio, dal terrore per l'ISIS alle risate per le gaff di chicchesia. A me questa narrazione a singhiozzi piace poco.
    Per quanto riguarda il fare show, direi che c'è dell'altro. Mi vengono in mente i casi giudiziari. Mi spiego tornando sempre al mio paragone preferito, quello con la narrativa. I gialli ne sono alla base; c'è un delitto, c'è un'indagine, poi un processo e un verdetto. Ecco il motivo per cui tirano, raccontano una storia ricostruendola. In tv, come sul giornale cartaceo o online, un caso di cronaca giudiziaria dovrebbe poter essere trattato, nel senso migliore del termine, proprio in questo modo, come un giallo. Il giornalismo giudiziario, indipendentemente dal mezzo, dovrebbe ricostruire i fatti attraverso la presentazione delle narrazioni dell'accusa e della difesa. É vero sì, c'è anche la dimensione dello show, ma quello che più mi dispiace è la ricerca più emotiva che razionale. Molto spesso, invece di raccontare allo spettatore/lettore tutti i meccanismi del processo giudiziario, ignoti a molti, si punta a provocare delle risposte emotive, cosa che a un vero giornalista non dovrebbe interessare.

    La TV in questo è maestra: attraverso immagini e musiche provoca ed esaspera una reazione emotiva. Aspetta ma, stiamo già parlando di TV generalista?
    Al di là del mezzo, ripeto, penso sia il caso di parlare di giornalismo generalista. Oggi i diversi contenitori di informazione parlano un po' di tutto, finiscono col parlare di niente e capita poi che quello che dicano, lo dicono male. Secondo me, riprendendo il discorso su Destinazione Libia, con il blog ci si può concentrare su un tema, parlandone con continuità temporale, esplorando derivazioni e sviluppi, per offrire un quadro informativo completo. Così facendo penso di potermi inserire nelle crepe del giornalismo generalista attuale e di evitare di saltare da un capitolo all'altro della stessa storia. Con un blog tutto cambia; cambiano i limiti, le scadenze, c'è tutta un'altra dimensione che si basa soprattutto sul lettore anzi sul pubblico fidelizzato nel tempo.

    Come vivi la distanza tra te e la realtà di cui parli, le vicende libiche di cui scrivi?
    Da un lato, non lo nego, nonostante sia cosciente della difficoltà che presenta ad oggi la situazione di certe aree del paese, un po' mi spiace non essere lì. Sul territorio si ha un'altra impressione, più diretta. Tuttavia, il rimanere all'esterno, lontano, escluso da quei confini, mi permette forse di vedere le cose con maggiore obiettività. Grazie ai social, sono capace di vivere le situazioni dai racconti che mi arrivano in tempo reale e questo mi permette di ridurre un po' la distanza fisica ed emotiva con il territorio di cui parlo.

    Parlando di social, come ti "proteggi" dalle false notizie o false fonti che possono rimbalzare da un follower/amico all'altro? In questo caso è essenziale avere coscienza della situazione di cui si parla. E torno ancora una volta alla continuità narrativa di cui dicevamo prima. Io oggi ho idea di quello che succede nelle principali città della Libia. So che a Bengasi ci sono carri armati per le strade e c'è chi tiene un'arma in casa. Questo mi aiuta a evitare o a prendere in considerazione un tweet. Chiaro che le fonti ufficiali, se e quando possibile, è bene averle tenendole in giusta considerazione rispetto a fonti meno professionali, soprattutto da quelle che fanno informazione da bastian contrario.

    É forse un rapporto conflittuale quello tra le fonti nei social?
    Ma in realtà non è proprio così. Le fonti ufficiali come tali vanno prese, quelle invece non ufficiali devono essere costruite nel tempo, si deve creare un certo rapporto di fiducia. Le fonti si conoscono, si costruiscono anzi "stando sul pezzo" e non piombandoci d'un tratto. Nel mio caso, come giornalista esterno, che constata e racconta solo per quanto appreso da altri, arrivato a un certo punto posso solo prendere atto di ciò che dicono le varie fonti. Credo si possa chiamare onestà intellettuale, che vale anche in caso di rettifica da parte di una o più fonti. Questa è informazione responsabile. Il giornalista, certo, per professione è legato a una deadline e deve in questo caso constatare la presenza di voci dissenzienti, considerandone le dimensioni per non rischiare di attribuire a un popolo la contestazione di pochi. Anche se però nell'immediato è difficile avere e dare le giuste proporzioni. I social network in questo senso aiutano ad avere un quadro abbastanza ampio della situazione, permettono di confrontare diverse voci, ufficiali e ufficiose, però in definitiva non sono paragonabili al nostro essere fisicamente in un posto. Tengo a precisare inoltre che, in qualsiasi contesto, ogni fonte non è mai imparziale - ove imparzialità e obiettività non sono la stessa cosa - e sarebbe impensabile pretenderlo da fonti dirette, quelle immerse nel contesto da cui non è possibile chiedere di estraniarsi.  In questi casi sta a chi è fuori capire, proporzionare e valutare. Per quanto mi riguarda, seguendo da anni la Libia, sapendo la situazione in corso e conoscendo persone che abitualmente twittano a riguardo, credo di avere qualche possibilità in più rispetto ad altri per smarcarmi dal possibile sgambetto o dagli errori in cui è facile incappare se le voci, tante sui social, sono contrastanti.

    Seguendo dei fatti in rapida evoluzione spesso risulta difficile "stare sul pezzo" come dicevi, e a volte è comprensibile sentirsi costretti al compromesso tra tempismo e qualità dell'informazione. Il bravo giornalista, se messo alle strette da notizie contrastanti, deve poter fare la scelta migliore, che non prescinda né dalla tempestività né dalla verifica delle fonti. Pensando al panorama attuale, con notizie di ogni tipo che arrivano da chiunque e da ovunque, quanto è necessario secondo te puntare sulla qualità? Quanti sono in effetti gli utenti, i cittadini, gli abitanti della rete, che vogliono nutrirsi di informazione pura, di fatti, non opinioni? 
    Il punto è proprio questo ed è una cosa di cui ho scritto con ricorrenza nei miei post: molto spesso capita che alcuni dicano di essere informati o di volersi informare; in realtà si accontentano della notizia estemporanea, data in velocità o pubblicata senza contesto. Forse una parte del pubblico è realmente interessata alla disamina dei fatti, un'altra invece, preferisce farsi colpire dalle notizie che tendono a cavalcare l'onda emotiva. Penso ai fatti di questi giorni: molti di quelli che dicono di temere di vedere i miliziani dell'ISIS sotto casa, probabilmente non hanno mai letto un  rapporto sull'ISIS, - e ormai in rete di rapporti scritti da studiosi autorevoli se ne trovano moltissimi su qualsiasi argomento, anche comodamente scaricabili in pdf e gratuiti - che ne esamini obiettivi, strategie e organigramma ; non hanno cioè mai tentato di razionalizzare le proprie paure, di vedere quanto fossero motivate o no alla luce di una riflessione non emotiva e basata su conoscenze complesse. Nessuno chiaramente è obbligato a documentarsi sull'ISIS o su qualsiasi altra cosa, ma penso che in generale ciò che fa paura o genera diffidenza debba essere affrontato razionalmente; altrimenti è forse il caso di ammettere che a questo qualcosa stiamo dando meno importanza di quanto si voglia far credere. A ognuno la sua libera scelta, anche quella di mostrarsi terrorizzati di cose alle quali però all'atto pratico non si dà alcun rilievo: solo, mi sembra un po' un controsenso, un comportamento persino banale.

    Hai sollevato una questione interessante. Forse la scarsa qualità di un certo giornalismo è dovuta alla scarsa attenzione del lettore e del telespettatore. Si potrebbe parlare di una superficialità diffusa nella società contemporanea?
    Io non credo assolutamente che i giornalisti siano il tumore di questo mondo, come non lo sono i politici. Ma è tutto collegato. Un lettore abituato e affezionato a un'informazione emotiva spingerà il giornale a dare un'informazione emotiva. I dati sono importanti, è importante citarli come è importante citare anche le dovute fonti e definizioni, in caso contrario si parla di disinformazione. É anche vero che oggi, davanti alla disinformazione, il singolo ha modo di tutelarsi, perché fortunatamente tutto o quasi è rintracciabile e recuperabile.
    Ma allora torniamo alla domanda precedente: quante sono le persone che hanno interesse a prendere un'ora del proprio tempo per verificare quanto letto, scritto o detto? E' verosimile pensare che non siano molte.

    Cosa pensi di avere di diverso da un giornalista professionista e dal lettore medio? Probabilmente il fatto che non sia un giornalista di redazione mi dà più libertà, anche se devo dire che non ho mai avuto pressioni dalle redazioni "virtuali" dei giornali per cui collaboro. La libertà mi permette di approfondire quello che mi piace e penso sia una cosa del tutto positiva. Mi dispiacerebbe trovarmi in una redazione ed essere costretto a fare degli articoli di cronaca, ma non perché sia meno interessante, bensì non vedo l'utilità di fare qualcosa che magari ad altri verrebbe meglio perché personalmente più interessati.
    Quanto al lettore è possibile che io sia riuscito ad acquisire una maggiore consapevolezza o sensibilità nel distinguere razionalità e irrazionalità. Mi spiego: di solito cerco sempre di costruirmi un filone narrativo per cogliere l'essenza dei fatti, anzi degli avvenimenti. Quando non riesco a crearlo, considerando i limiti umani che anche io ho nel seguire le varie notizie, so di dovermi limitare alle informazioni così come "vendute" ma senza illudermi del loro valore. Spesso il lettore medio tende a farsi un giudizio da quel poco che ha appreso, solitamente parziale e privo di una qualsiasi sostanza che possa divenire oggetto di discussione.

    C'è qualche delusione che leghi al giornalismo?
    A parte non essere ancora corrispondente dalla Libia? Scherzi a parte, posso dire con franchezza che mi delude il giornalismo che non tenta nemmeno di dare una narrazione continua dei fatti, il giornalismo che non vuole fare narrazione in senso stretto. Il giornalista certo non ha i mezzi dello storico però per quanto possibile, con le tempistiche del caso, dovrebbe proporsi come lo storico di oggi. A me piacciono molto i libri storici, soprattutto quelli di storia locale, dove non si parla solo di -ismi e di tutte le etichette derivate, ma dove si raccontano persone realmente vissute che hanno agito in un contesto e che hanno fatto la storia. Il giornalista secondo me deve dare questa dimensione alle notizie, parlare di persone e fatti concreti, lasciando poi al lettore la libertà di costruirsi una propria opinione. Nel momento in cui il lettore viene privato di questa dimensione concreta e pragmatica, il giornalista non fa del tutto il suo lavoro, fa giornalismo per etichette, per annunci, rimanendo superficiale. Chiedo al giornalista di garantire al lettore la massima obiettività nel descrivere i fatti non per come sono, ma per come gli appaiono o gli sembrano apparire; gli chiedo di raccogliere i punti di vista contrastanti; non voglio sia né difensore né accusatore, per quanto possibile vorrei si facesse portavoce di tutte e di ogni parte.

    Posted on mercoledì, febbraio 04, 2015 by Unknown

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