Togliere
i denti del giudizio non è un'operazione così banale. Se poi medici
e infermieri ce ne mettono del loro, si rischia di affrontare un vero
calvario.
A causa della posizione particolarmente delicata dei miei due ottavi inferiori, la dentista aveva consigliato di rivolgermi il prima possibile a una delle aziende sanitarie della regione. Dopo panoramica, TAC e varie valutazioni odontostomatologiche finalmente, a gennaio 2013, sono stata inserita nella lista interventi dell'Ospedale di Gorizia.
Un anno e due mesi più tardi gli ottavi erano ancora lì, ben piazzati nell'arcata inferiore e facevano capolino dalle gengive spaccate, spingendo e causando forti emicranie e infiammazioni.
Grazie
a numerosi reclami rivolti a chi di dovere sono riuscita ad
anticipare l'operazione evitando l'ulteriore attesa di almeno sei
mesi, tempi inaccettabili.
Martedì 13 maggio, il gran giorno: il piano prevedeva ricovero in chirurgia alle ore 7:30, ingresso in sala operatoria per le ore 9:00 circa, una notte in osservazione, visita di controllo il giorno successivo e via a casa. Ahah, come no!
Tanto per cominciare, subito dopo il ricovero la tabella di marcia ha subito un ritardo di due ore. Ben più grave e insopportabile però è stata la fase post-operatoria causa errata terapia prescritta.
Essendo allergica al clavulin e ad altri medicinali come oki e sali di lisina, i medici hanno deciso di andarci con i piedi di piombo, non prescrivendomi alcun antibiotico; addirittura hanno segnato nella cartella clinica "allergia alla penicillina". L'eccesso di zelo l'ho pagato caro il giorno seguente, quando, oltre al gonfiore in via di peggioramento, è comparsa anche la febbre.
I giorni di ricovero sono passati da uno a due e poi da due a quattro. Evidentemente i medici, vista la reazione del mio corpo alla terapia, volevano essere sicuri di mandarmi a casa nel migliore dei modi, senza febbre, gonfiore, infiammazioni ecc. Peccato però che dopo le dimissioni non mi abbiano prescritto almeno un antibiotico blando. Nada de nada. Risultato: sabato 17, poco dopo la mezzanotte, sono andata in pronto soccorso con febbre e faccia modalità criceto. Vista un'emergenza in arrivo, il reparto ha deciso di mandarmi dalla guardia medica al momento disponibile. Due ricette di antibiotico e cortisone e mi hanno rispedita a casa. Certo, subito dopo l'assunzione non è cambiato granché, ma già due giorni dopo cominciavo a star meglio.Tornata in ospedale una settimana più tardi per il controllo di routine, sono passata all'URP a prendere i moduli per formalizzare l'esposto che rimandavo da giorni e denunciare la negligenza di alcuni infermieri valsa dolori di cui avrei fatto volentieri a meno.
Di seguito il caso:
A causa della posizione particolarmente delicata dei miei due ottavi inferiori, la dentista aveva consigliato di rivolgermi il prima possibile a una delle aziende sanitarie della regione. Dopo panoramica, TAC e varie valutazioni odontostomatologiche finalmente, a gennaio 2013, sono stata inserita nella lista interventi dell'Ospedale di Gorizia.
Un anno e due mesi più tardi gli ottavi erano ancora lì, ben piazzati nell'arcata inferiore e facevano capolino dalle gengive spaccate, spingendo e causando forti emicranie e infiammazioni.
Martedì 13 maggio, il gran giorno: il piano prevedeva ricovero in chirurgia alle ore 7:30, ingresso in sala operatoria per le ore 9:00 circa, una notte in osservazione, visita di controllo il giorno successivo e via a casa. Ahah, come no!
Tanto per cominciare, subito dopo il ricovero la tabella di marcia ha subito un ritardo di due ore. Ben più grave e insopportabile però è stata la fase post-operatoria causa errata terapia prescritta.
Essendo allergica al clavulin e ad altri medicinali come oki e sali di lisina, i medici hanno deciso di andarci con i piedi di piombo, non prescrivendomi alcun antibiotico; addirittura hanno segnato nella cartella clinica "allergia alla penicillina". L'eccesso di zelo l'ho pagato caro il giorno seguente, quando, oltre al gonfiore in via di peggioramento, è comparsa anche la febbre.
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giorno 2 |
Di seguito il caso:
Giovedì
15 maggio, ore 20.00: terminate le flebo prescritte da terapia, ho
chiamato l'infermiera di turno e ho chiesto se fosse normale
avvertire gonfiore e dolore al braccio, visto gli ormai due giorni e
mezzo trascorsi dal ricovero con lo stesso ago in vena senza alcun
dolore e gonfiore. Mi è stato risposto: "In effetti questo ago
ha fatto il suo corso...". Detto questo l'infermiera se n'è
andata.
Qualche
ora dopo, un infermiere è entrato nella mia stanza per
tranquillizzare l'anziana signora del posto letto 225; ne
ho approfittato per chiedere ancora una volta se fosse normale
avvertire dolore al braccio durante e dopo le flebo e se ci fossero
rischi d'infezione. Mi è stato detto di non preoccuparmi e di non
temere alcuna infezione.
Venerdì 16 maggio, ore 6.20: lo stesso infermiere della notte precedente è venuto a darmi la flebo di antibiotico. Alle ore 8.00 la flebo non era neanche a metà e continuavo ad avvertire dolore e gonfiore al braccio, oltre che una spiacevole sensazione di freddo. Dopo qualche minuto ho usato il campanello di emergenza; quando è arrivata una delle OSS di turno, ho mostrato che la flebo continuava a non scendere, nonostante le due ore passate dall'inserimento. L'operatrice ha fermato il flusso della flebo e quando ho chiesto nuovamente i motivi del dolore al braccio, si è avvicinata, ha tocca il braccio esattamente sulla zona dolorante da me indicata e ha detto non fosse nulla. Dopo aver ricordato anche a lei di avere lo stesso ago da 3 giorni, l'operatrice ha detto: "No, può stare dentro anche una settimana, sarà che il tuo è stufo di stare li".
Venerdì 16 maggio, ore 6.20: lo stesso infermiere della notte precedente è venuto a darmi la flebo di antibiotico. Alle ore 8.00 la flebo non era neanche a metà e continuavo ad avvertire dolore e gonfiore al braccio, oltre che una spiacevole sensazione di freddo. Dopo qualche minuto ho usato il campanello di emergenza; quando è arrivata una delle OSS di turno, ho mostrato che la flebo continuava a non scendere, nonostante le due ore passate dall'inserimento. L'operatrice ha fermato il flusso della flebo e quando ho chiesto nuovamente i motivi del dolore al braccio, si è avvicinata, ha tocca il braccio esattamente sulla zona dolorante da me indicata e ha detto non fosse nulla. Dopo aver ricordato anche a lei di avere lo stesso ago da 3 giorni, l'operatrice ha detto: "No, può stare dentro anche una settimana, sarà che il tuo è stufo di stare li".
Detto ciò se n'è andata.Passata
una decina di minuti è arrivata un'altra infermiera. Ha riavviato il
flusso della flebo, mettendolo a buona velocità e quando ho chiesto
ancora i motivi del dolore mi è stato detto fosse del tutto normale.
Mi son arresa e ho chiesto se, terminata la flebo in questione, avrei
poi avuto anche la solita flebo di cortisone, somministratami da
trattamento come nei giorni precedenti.
L'infermiera ha risposto: "E
dov'è?"
Io
ho replicato: "Dov'è cosa?"
L'infermiera:
"Se dovevo farle il cortisone, avrei dovuto trovarlo già qua.
Si vede che gliel'hanno fatto e lei non si è accorta".
Io
ho riferito quanto successo fino a quel momento, ho chiesto venisse
controllata la mia cartella per verificare l'effettiva
somministrazione del cortisone e dopodiché l'infermiera è uscita
dalla mia stanza.Al
termine della flebo l’infermiera, riguardo alla
somministrazione del cortisone, mi ha riferito che "Sulla carta
risulta segnata e firmata quindi l'ha fatta, magari lei non si è
accorta".
Allora ho ribadito: "Guardi, io stanotte non ho
dormito e ricordo l'ora esatta in cui il suo collega mi ha messo la
prima flebo di antibiotico, e lui stesso, dopo mia richiesta, mi ha
detto che la flebo di cortisone l'avremo fatta successivamente. Mi
può dire a che ora risulta dalla cartella?"
A
tale domanda l'infermiera si è alterata e con fare poco rispettoso
nei miei confronti ha detto: "Senta, io rispondo per me, cosa ne
so a che ora i miei colleghi hanno fatto o non fatto qualcosa?".
Data
la risposta scortese e il mio notevole imbarazzo, mi sono voltata
verso una delle due operatrici in camera, rivolta al momento verso di
me. Ho cercato di far capire all'infermiera che non chiedevo sue
risposte quanto all'azione di suoi colleghi, ma semplicemente
un'informazione dovutami in quanto mio pieno diritto. Dopodiché, con
ancora le due operatrici e l'infermiera presenti, sono tornata a
letto e scoppiata in lacrime, senza informazioni e senza delle scuse.
In
tarda mattinata l'infermiera è tornata nella mia stanza per dirmi
che non potendo reperire il collega del turno notturno per verificare
l'effettiva somministrazione del cortisone, era stato concordato con
il dottor Lupieri di darmi un'ultima flebo di antibiotico e una di
cortisone poco prima del mio rilascio, attorno alle ore 15.00.
L'infermiera
del pomeriggio è venuta a inserire la prima flebo poco dopo le
16.00. Sin da subito ho avvertito un forte dolore al braccio, con
delle fitte acute fin dietro la schiena e a lato del seno sinistro.
Ho chiamato subito il mio compagno, che mi attendeva in corridoio e
gli ho chiesto di chiamare l'infermiera per chiederle se fosse
normale. L'infermiera, una volta entrata, si è accorta che, come la
mattina stessa, la flebo non scendeva, e il mio braccio era gonfio e
dolorante. Ha
escluso subito un caso di flebite. Ha dunque provato ad
allungarmi il braccio tentando di far scorrere meglio il fluido, ma
senza successo. Visto
il mio continuo e sempre più forte dolore, l'infermiera ha deciso di
inserire la flebo nell'altro braccio, il destro, utilizzando a mia
richiesta il più piccolo ago disponibile. Poi ha rimosso l'ago
inseritomi martedì 13, prima dell'operazione. Quest'ultimo, come
testimoniato anche dal mio compagno, era evidentemente ripiegato,
segno, come ipotizzato dall'ultima infermiera, che l'ago fosse andato
fuori vena.
Un
paio di giorni più tardi l'URP mi ha inviato via lettera le formali
scuse della capo reparto e mi ha informata dell'indagine interna già
avviata, di cui a breve dovrei ricevere aggiornamento.
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